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"Un incontro mitico alla Cava dei Venti"

A cura di Paolo Beretti

Riprendo l'Eneide per collegarmi alla mia precedente recensione, nella quale si parlava della descrizione del tragico episodio accaduto a Laocoonte, sulla spiaggia di Ilio. Cambiamo ambiente e arriviamo a trovarci sulla soglia di casa di re Eolo, il quale, con corona e scettro e a torace scoperto, si sta sporgendo dal limitare della caverna dei venti per accogliere Giunone. La dea gli parla, indicando alcune imbarcazioni a vela che solcano il mare all’orizzonte, e gli chiede di scatenare una tempesta contro le navi di Enea:

“Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,

giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri

e de le furie lor patria feconda.

Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso

le sonore tempeste e i tempestosi

vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.”

(...)

“A cui davanti l'orgogliosa Giuno

allor umíle e supplichevol disse:

"Eölo, poi che 'l gran padre del cielo

a tanto ministerio ti prepose

di correggere i vènti e turbar l'onde,

gente inimica a me, mal grado mio,

naviga il mar Tirreno...”

(...)

“Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,

aggiragli, confondigli, sommergigli,

o dispergigli almeno...”

(...)

“Eolo a rincontro: "A te, regina, disse,

conviensi che tu scopra i tuoi desiri,

ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono

son qui per te. Tu mi fai Giove amico,

tu mi dài questo scettro e questo regno;

se re può dirsi un che comandi a' vènti.

Io, tua mercé, su co' celesti a mensa

nel ciel m'assido..."

(...)

“Cosí dicendo, al cavernoso monte

con lo scettro d'un urto il fianco aperse,

onde repente a stuolo i vènti usciro.”

(Virgilio: Eneide, traduzione di Annibal Caro, Libro Primo, versi 12-80)

Come per Laocoonte, passiamo dalla trascrizione letteraria a quella figurativa, operata nel Seicento da due allievi di Guido Reni. L’autore del primo dipinto rappresenta in modo puntuale la scena descritta da Virgilio, chiara, diurna e luminosa: visualizza il “monte cavernoso”, la vista sul Tirreno e l’atteggiamento di Giunone, riccamente vestita ma con espressione “supplichevole” nel volto.


Immagine 1: Antonio Randa, “Giunone e re Eolo alla cava dei venti”New York, collezione privata. Olio su tela. Altezza cm. 110 - larghezza cm. 149. Circa 1640

Dietro il pesante manto dorato di Giunone compare il pavone, a lei sacro fin dalle favole tramandate da Fedro e, prima di lui, da Esopo:

C'era una volta un pavone insoddisfatto che un giorno si recò da Giunone perché non riusciva ad accettare il fatto che alla sua nascita la dea non gli avesse assegnato il canto dell'usignolo.

"Così avrei suscitato l'invidia degli altri uccelli - lamentò il pavone - invece, non appena emetto un suono divento lo zimbello di tutti quelli che mi ascoltano". Giunone cercò di consolarlo dicendogli: "È pur vero che tu non eccelli nella virtù del canto, però devi ammettere che nessun altro uccello può superarti in bellezza. Tu puoi mostrare con orgoglio lo splendido smeraldo che brilla sul collo e la coda incastonata di gioielli e di piume quasi fosse dipinta dal più bravo dei pittori." "Cosa me ne faccio di questa bellezza - protestò ancora il pavone - se poi vengo battuto nel canto da tutti quanti gli altri?" "La sorte ha distribuito ad ognuno di voi una qualità: a te ha dato la bellezza, all'aquila la forza, all'usignolo il canto, al corvo la profezia. Così è stato per tutti gli altri uccelli", disse Giunone, poi, con tono secco e severo concluse: e nessuno se ne è mai lamentato, soltanto tu lo stai facendo, sei un ingrato!

Torniamo a Eolo, mentre accoglie con favore la dea, dicendosi riconoscente per il favore accordatogli dall’Olimpo (“Io ciò che sono son qui per te”): con tono dimesso, tiene basso il suo scettro e con l’altra mano alzata esaudisce subito la supplica tanto che, seguendo la direzione del suo gesto, possiamo scorgere una nuvola che già inizia a formarsi, nell’alto del cielo.

Presentato in un catalogo di Sotheby’s del 2009, questo dipinto è stato attribuito da Daniele Benati ad Antonio Randa, pittore bolognese classicista, oggi poco conosciuto ma alla sua epoca considerato il migliore allievo di Guido Reni (dal conte Malvasia, che era ben al corrente della situazione artistica nella sua città). La stima di vendita stava tra i 60.000 e gli 80.000 dollari e l’opera è stata acquistata da un collezionista privato di New York.

La scheda del catalogo riporta alcuni dati sui precedenti possessori della tela: il collezionista che lo ha messo all’asta lo aveva acquistato da una collezione privata sudamericana e la più antica provenienza del dipinto risale alla collezione della famiglia bolognese Hercolani (o Ercolani). L’iscrizione “Scuola di Guido Reni / Galleria Principe Ercolani” viene ritenuta d'epoca remota ed è posta sul telaio; ringrazio a questo proposito Alberto Chiesa e Christopher Apostle, esperti di Sotheby’s, che mi hanno inviato la trascrizione di questa dicitura.

Parte di questa prestigiosa collezione venne acquistata da Giacchino Rossini in un momento di necessità economica dei nobili bolognesi, e oggi è parte fondamentale della quadreria del maestro di musica conservata nella sua abitazione di Pesaro; mentre altre opere della raccolta originale andarono disperse. Purtroppo un dipinto con questo soggetto non compare nelle descrizioni delle opere esposte nel palazzo Hercolani di Bologna, che ci sono state tramandate da più testi.

Non avendo motivi per dubitare della veridicità dell'iscrizione, si possono avanzare alcune ipotesi per spiegare questa mancanza. Il dipinto avrebbe potuto essere stato venduto e siglato con quella iscrizione ancor prima che fossero redatti gli scritti che documentavano e lodavano quella raccolta, risalenti alla seconda metà del ‘700: a questo proposito si può notare che, intorno al 1630 (10 anni prima della datazione alla quale si ritiene di riferire questo dipinto, come argomentato di seguito) a Bologna venne istituita la “Compagnia de’ Zanaglij”, della quale facevano parte mercanti e periti d’arte divenuti necessari per dare consulenze ai collezionisti bolognesi che, a partire dai successi romani di Guido Reni, divennero numerosi, diversificati (anche borghesi oltre che nobili) e precisi nella descrizione delle loro collezioni. E da ricordare è il ruolo svolto come mecenate dal conte Girolamo Hercolani, tra i finanziatori della decorazione nell’Oratorio di Santa Maria della Vita, dove è conservato il primo dipinto di Randa ricordato e ammirato dalle fonti (e dove il nostro pittore, in giovane età, aveva sicuramente avuto modo di farsi conoscere dal conte).

Esiste poi la possibilità che questa tela a tema mitologico appartenesse a un altro ramo della famiglia Hercolani, come mi ha suggerito per iscritto Barbara Ghelfi.

Questo dipinto, di recente attribuzione, non è stato ancora analizzato dalla critica. Elena Iannone lo ha però inserito nella sua tesi di laurea, che mi ha gentilmente messo a disposizione, suggerendo correzioni alla scheda di Sotheby’s e istituendo un paragone con un dipinto dello stesso soggetto firmato da Lucio Massari, che era stato il maggiore allievo di Annibale Carracci e divenne il secondo maestro di Randa, dopo che l'alunnato di questi presso Reni venne interrotto in seguito a tragici fatti... di cui parlerò in altra occasione. Quest'altra tela, che era precedente alla prima cui abbiamo accennato, è conservata a Roma, nella Galleria Doria-Pamphilj: pur partendo dalla struttura e dalle pose ideate dal maestro, nel frattempo deceduto, Antonio Randa usa colori diversi, con accostamenti preziosi; inserisce nello sfondo la cava dei venti e apre il paesaggio sul mare, mentre la tela di Roma presenta uno sfondo scuro uniforme.

Finora Randa aveva lavorato per committenze religiose e su temi religiosi; in questa occasione l’artista avrebbe seguito una richiesta ben precisa, colta e aggiornata sui due testi classici di riferimento, di Fedro e Virgilio, entrambi tradotti e stampati da non molto, a fine ‘500.

Il riferimento ad Antonio Randa è da accogliere, oltre che per motivazioni stilistiche, anche per la derivazione dal dipinto del suo maestro, che egli evidentemente conosceva.


Immagine 2: Paragone con la tela di Lucio Massari, “Giunone e Eolo" Roma, Galleria Doria-Pamphilj.

Un confronto, infatti, tra la tela con Giunone ed Eolo di Massari e quella di Randa evidenzia con chiarezza immediata similitudini e differenze: al di là della stessa impostazione con i due protagonisti di profilo, osserviamo come il primo artista movimenti gli arti e i panneggi come onde che passano dalla dea al re dei venti, conferendo continuità e ritmo classico all’insieme. Diversamente Randa, come in altri suoi lavori, mantiene separate le figure che si confrontano solamente con lo sguardo; gli arti si muovono rigidamente, sebbene le sue raffinatezze stilistiche agiscano su altri livelli facendo passare in secondo piano questa manchevolezza: da una parte la morbidezza palpabile delle mani e la sontuosità dei panneggi di Giunone (derivate da Reni), dall’altra l’evidenza realistica del corpo seminudo di Eolo.

Analizzando le anatomie maschili dipinte dai due artisti vediamo che Massari utilizza con disinvoltura una conoscenza profonda della struttura del corpo (frutto della sua formazione nella carraccesca Accademia degli Incamminati, dove è noto che si praticava lo studio dell'anatomia e del disegno dal vero); il che gli permette di dipingere forse a memoria ossa e muscoli di Eolo. Mentre Randa trae esempio da un modello: la posa è sì meno sciolta, ma appare anche più vera nella resa epidermica del corpo. Si tratta di una riproposta della tipologia maschile che aveva dipinto nella figura di Giovanni Battista in una tela esposta nella fiorentina Certosa del Galluzzo.

La posa del braccio di Eolo, d’altra parte, è quasi una costante in opere di altri artisti di formazione carraccesca: dal braccio del Giovanni Battista nel Battesimo di Cristodi Guido Reni ora a Vienna, a quello in predicazione del Gessi (altro fondamentale allievo reniano) che si conserva in una collezione privata bolognese, all’altro di un angelo con tamburo nella Gloria di San Valeriano di Guido Cagnacci nella pinacoteca di Forlì. Tutti frutto di studi dal naturale, che esibiscono anche artisti minori come Giacomo Bellini, il quale atteggia nello stesso modo un carnefice nel Martirio di San Vitale nella piccola chiesa di San Nicolò degli Albari, a Bologna.

Arti studiati dal vero:


Immagine 3: re Eolo di Randa

Immagine 4: Giovanni Battista (dal Galluzzo), di Randa.
Immagine 5: particolare da Ercole e Onfale di Giovan Francesco Gessi (1620/1630) ora alla Pinacoteca Nazionale di Bologna
Immagine 6: particolare dal Martirio di San Vitale di Giacomo Bellini in San Nicolò degli Albari, a Bologna.

Gli accenti realistici sono tanto più evidenti quando ne riconosciamo i modelli, che si possono osservare in veste di protagonisti in una pala randiana a San Giovanni in Persiceto, dove Gregorio Magno, leggermente scorciato, ha il volto simile a quello di Eolo, al quale è ancor più vicino un Giuseppe ora a Milano; mentre la Madonna di Persiceto è la riflessione speculare di Giunone e di un'altra Maria dipinta in un telero di Rovigo: sulle palpebre e nelle pieghe del collo ritroviamo persino gli stessi tocchi del pennello.

Volti maschili ricorrenti in Antonio Randa:


Immagine 7: “La Sacra Famiglia servita dagli angeli”, Milano
Immagine 8: Dettaglio da “La Madonna e San Gregorio Magno intercedono per le anime del Purgatorio”, S.Giovanni in Persiceto

Immagine 9: “Giunone e re Eolo”, New York

In virtù di questi argomenti, la tela di New York si colloca sicuramente dopo la Pala del Suffragio di San Giovanni in Persiceto, per la qualità superiore raggiunta da Randa con questo dipinto e, data la committenza bolognese, in un momento di soggiorno nell’ambiente natale. Un aiuto nel precisarne la datazione può venire dalla qualità degli accordi coloristici, che rimandano ad esperienze toscane e venete esperite da Randa in periodi successivi al 1638: questo dipinto evidenzia un perfetto bilanciamento tra accordi cromatici e tonali, come forse solamente Annibale Carracci era capace di fare; il gesto indicatore della Santa, poi, è illuminato da un magnifico controluce colorato, degno di Bronzino, più che di Veronese. Simili esiti potevano sì derivare da una attenta lettura delle migliori opere carraccesche e reniane, osservate in ambito bolognese, le quali inglobavano nel proprio bagaglio stilistico proprio le conoscenze di quelle scuole pittoriche, ma la vicinanza ai due dipinti realizzati nel 1638 (santa Cecilia e san Bruno) vanno nella stessa direzione. Ho pertanto proposto una datazione compresa tra il 1638 e il 1644, subito dopo la realizzazione della Santa Cecilia un tempo a Rovigo - a questa strettamente imparentata ma di qualità inferiore - e del soggiorno al Galluzzo - fonte di conoscenza per le cromie del manierismo fiorentino - e ben prima del telero della Rotonda di Rovigo, di impostazione differente; piuttosto appena prima del passaggio da Modena (attestato da un Bambino Gesù del 1640), quando una sosta a Bologna, tornando da Firenze, può essere stato il momento più adatto per questa committenza. Quindi intorno al 1640, dopo le prime opere eseguite a Rovigo, anche dopo la bellissima decorazione realizzata nella Cappella di San Bruno alla Certosa del Galluzzo, e prima di tornare per una seconda breve permanenza in quel di Rovigo.

Nelle immagini si possono ritrovare i paragoni che ho proposto e che ognuno può giudicare.

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