A cura di Paolo Beretti "Compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità." (Aristotele, Poetica)
Inizio con Aristotele perché apprezzo l'idea di costruire scritti circolari, e vedrete che il filosofo di Stagira tornerà al termine di questa recensione, che inizia e termina con la sapienza greca, antica ma sempre attuale come tutto ciò che scende in profondità.
Mi piace anche guardare contesti e situazioni dall'alto e l'ultimo saggio di Barilli va appunto in questa direzione.
Il noto critico dell'arte e della letteratura ha insegnato discipline che non si fermano sui dettagli, piuttosto allargano assai lo sguardo sulla cultura: dall'estetica alla fenomenologia degli stili.
Ha dedicato i suoi studi all'analisi dei singoli fenomeni artistici come parte di movimenti culturali, inserendo le poetiche e gli stili di differenti artisti in un comune sentire che nasce, non a caso, in un luogo e in un tempo (hic et nunc) ben precisi; ciò che oggi è sempre più utile per orizzontarci e trovare punti fermi o almeno motivazioni nella babele del nostro "globalismo multiculturale". Per impostare la sua ricerca ha indicato una costante storica:
le opere d'arte dipendono dalla cultura materiale del luogo e del tempo in cui si sviluppano, sono quindi la forma simbolica della tecnica umana.
Nel 2019 è uscito un agile volumetto che intende riassumere le catalogazioni delle arti, partendo dal 1700 per poi vedere come si sono sviluppate queste teorie di pari passo con le innovazioni degli artisti, con la prospettiva di decodificare le più recenti creazioni estetiche: Renato Barilli, "Una mappa delle arti nell'epoca digitale. Per un nuovo Laocoonte", Marietti 1820, Bologna, 2019; nella presentazione presso l'Archiginnasio di Bologna è stato annunciato un seguito a questa lettura sintetica, per un successivo approfondimento.
Questo discorso, come detto, inizia dalla seconda metà del XVIII secolo, proprio agli albori della contemporaneità, con Winckelmann che pone sullo stesso piano la pittura e la poesia per nobilitare l'arte del suo tempo e accostarla a quella antica: recuperando il motto di Orazio, ut pictura poësis, e vantare l'ascendenza classica di quello stile europeo presto definito Neoclassico, che solo in apparenza dipendeva dal recupero dei valori dell'antichità. Il letterato tedesco giustifica l'equivalenza tra pittura e poesia in un modo che oggi pare bizzarro: entrambe necessiterebbero di "una descrizione di fatti e persone che sia ricca, ampia e dettagliata".
L'esempio che qui riporto, col dipinto di cui David era maggiormente orgoglioso, potrebbe avvalorare questa tesi e può essere stato questo a sviare Winckelmann; ma sappiamo bene quanto la scultura neoclassica sia emozionante nella sua sintesi e la poesia raggiunge i suoi vertici nelle metafore, nel simbolismo, e non tanto nel colmare il lettore di dettagli realistici.
Fin da subito, infatti, sorse una critica da parte di Lessing - altro intellettuale tedesco - che, nel saggio intitolato Laocoonte, distinse le arti visive da quelle poetiche in quanto le prime si apprezzano con un solo colpo d'occhio, in una visione sincronica, mentre le seconde vivono nel tempo della lettura, oggi diremmo in un flusso diacronico.
Questa distinzione può essere utilizzata per raccogliere in grandi ambiti coerenti le arti figurative, per loro natura statiche anche quando suggeriscono il tempo e il movimento; da quelle che si fruiscono inevitabilmente con il dinamismo: scrittura - musica - teatro - danza. L'esempio utilizzato per sostenere questa tesi è rappresentato dalla vicenda del sacerdote troiano e possiamo agevolmente ricreare le suggestioni del filosofo tedesco, paragonando anche noi le due incarnazioni che ricordano questo personaggio, leggendo una citazione dall'Eneide mentre ammiriamo le forme della scultura ellenistica.
"Senza esitare, i serpenti puntano su Laocoonte. E anzitutto, avvinghiati con molte spire viscide i suoi due figli piccoli, ne straziano le membra a morsi. Poi si gettano su Laocoonte che armato correva in loro aiuto stringendolo coi corpi enormi: già due volte in un nodo squamoso gli han circondato vita e collo: le due teste stan alte sul suo capo. Sparse le sacre bende di bava e di veleno Laocoonte si sforza di sciogliere quei nodi con le mani ed intanto leva sino alle stelle grida orrende, muggiti simili a quelli d'un toro che riesca a fuggire dall'altare, scuotendo via dal capo la scure che l'ha solo ferito." (Virgilio, Eneide, Libro secondo, traduzione di M. Ramous )
Intanto, un terzo intellettuale tedesco, Baumgarten, stava riflettendo su di una visione ancora più ampia delle categorie artistiche, inserendole tutte all'interno del concetto di "Estetica", come filosofia dei sensi.
Nell'Ottocento la distinzione di Lessing viene scalfita dalle innovazioni che donano un ritmo temporale alle immagini statiche, passando dalla stampa di illustrazioni in sequenza, al fumetto, alla fotografia, fino al cinema; senza dimenticare le lanterne magiche e soprattutto gli studi di fotodinamica dell'inglese Muybridge e del francese Marey.
A questo proposito, consiglio un ricchissimo volume pubblicato in inglese - tedesco - francese e reperibile facilmente anche nelle nostre librerie, in edizioni di diverso formato: Hans Christian Adam, "Eadweard Muybridge. The Human and Animal Locomotion Photographs", Taschen, Koln, 2010-2014.
Più che il cinema, saranno appunto queste fotografie - oltre al fumetto, che da alcuni decenni stava mostrando come mettere in sequenza le immagini, oltre all'invenzione del surrealismo visuale - a suggerire l'ampliamento del dinamismo in pittura agli artisti delle Avanguardie: da Picasso, attraverso i futuristi italiani, arrivando alle ricerche di Duchamp, che qui propongo in una auto-crono-fotografia, propedeutica per il suo famoso dipinto cubista col Nudo che scende le scale, e con il dinamismo messo pienamente in atto nei suoi roto-relief, autentiche forme in movimento.
Nel secondo dopoguerra un ulteriore salto nella concezione e nella struttura delle arti visive avviene negli Stati Uniti, dove l'azione esercitata da alcuni artisti (da non trascurare Arshile Gorki, di cui tratterò in altra occasione) nella realizzazione dei loro dipinti sembra diventare un tutt'uno con l'opera finale stessa.
Pollock, oltretutto, viene anche fotografato e filmato nel corso del suo gesto artistico e questa documentazione presa dal vivo può far considerare il suo atto creativo come una esibizione in divenire.
Le innovazioni accelerano, passando attraverso l'arte cinetica: le immagini statiche diventano forme mosse da un meccanismo, oppure dall'azione degli stessi visitatori, che si trovano ad interagire e modificare le opere in mostra. Altro termine utilizzato è arte programmata, titolo di una esposizione itinerante organizzata da Munari e Soavi nel 1962, con catalogo di Umberto Eco.
Tra i maggiori protagonisti di queste ricerche è l'italiano Gianni Colombo, fondatore negli anni '59-'60 del Gruppo T e vincitore di una Biennale di Venezia, che nel frattempo era uscita dalla sua natura di celebrazione della migliore tradizione per porsi come luogo di scoperta delle ultime novità.
Nel frattempo, negli U.S.A. si sviluppa l'intuizione insita nelle azioni di Pollock e Allan Kaprow espone se stesso nei primi happening della storia, interpretazioni che si differenziano da quelle teatrali perché non raccontano una storia e si svolgono nei luoghi deputati all'esposizione delle tradizionali opere figurative. Andy Warhol giungerà a interpretare l'intera sua vita come opera d'arte vivente.
Continua la messa in movimento dell'arte, coniugando il video con l'agire dei protagonisti i quali, faccio notare, si stanno esponendo in prima persona, non sono più "nascosti" dietro l'esposizione dei loro lavori. Gli esordi dell'arte che utilizza il video, la videoarte, un tempo chiamata anche videoscultura, si possono far risalire, nello stesso fatale 1969, sia a Gerry Schum, che documentò la realizzazione delle prime opere di Land Art; che allo stesso Barilli, autore del saggio di cui stiamo parlano, il quale ebbe l'idea di filmare vari artisti italiani - esponenti di Arte Povera, concettuale o non classificabili - in azioni estetiche di varia natura, per poi proiettarli in una mostra a Bologna nel 1970.
L'utilizzo della telecamera genera dei lavori dichiaratamente elettronici. La gallerista fiorentina Maria Gloria Conti Bicocchi seppe cogliere la rilevanza delle innovazioni portate avanti da alcuni autori che vollero provare a fare arte direttamente in tale maniera e promosse, tra le prime esperienze al mondo di questo genere, la realizzazione e la messa in mostra di opere di Video Arte. In rete possiamo leggere i ricordi che la gallerista sta consegnando, man mano, alle pagine digitali: http://www.mariagloriabicocchi.it/bio/bio.html
Uno di quei primi videoartisti - e oggi riconosciuto come il più importante - era il giovane americano (di origini italiane) Bill Viola, impegnato curiosamente a sperimentare le sensazioni umane (protagoniste dell'estetica settecentesca) attraverso i mezzi tecnologici: invece di travisare la natura umana, la tecnica viene sfruttata per amplificare i nostri sensi. Mentre Nam June Paik inseriva semplicemente dei monitor nelle sue installazioni, Viola - che del coreano fu collaboratore - era più interessato a registrare l'eco sonora generata nelle navate delle chiese fiorentine, a filmare agli infrarossi il trascorrere della notte, e sperimentava dei sistemi per farci riflettere sugli stati della coscienza in divenire: la nostra vita nel tempo.
Abbiamo così incontrato diverse nuove categorie che sono entrate all'interno dell'universo delle arti visive: le immagini in movimento, la tecnologia, la presenza dell'artista, con utilizzazioni diversificate delle stesse, contaminazioni e approfondimenti. Vediamo ora come è stato approfondito il tema dell'azione dell'artista, con la sua presenza davanti al pubblico; dagli happening, finora ancora approssimativi, si passa alla progettazione di performance strutturate, che rispondono ad una esigenza, esprimono una tematica e trasmettono al pubblico determinate sensazioni. Barilli colse al balzo anche questa novità e organizzò una serie di "esposizioni" pubbliche che mostravano non delle opere statiche, ma delle opere dinamiche che erano impersonificate dai loro stessi autori. Il critico bolognese sottolinea che il temine performance è un false friend, in quanto viene naturale pensare ad una "messa in forma", invece la derivazione è dal francese perfurnir, che si può tradurre come il "fornire una prestazione". Tra quelle esibizioni, la più nota è oggi sicuramente Imponderabilia, con cui Marina Abramovic e il suo allora fidanzato Ulay scioccarono il pubblico degli anni '70 esponendo le proprie nudità e facendole interagire con i visitatori all'entrata della gloriosa Galleria d'Arte Moderna. Ulay se ne è purtroppo andato in questi giorni (pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, nato a Solingenil 30 novembre 1943, morto a Lubianail 2 marzo 2020), mentre di Marina ho trattato in una recensione dedicata al suo ultimo libro: Marina Abramovic, "Attraversare i muri. Un'autobiografia", Bompiani, Milano, 2018. Da qui possiamo trovare il resoconto di quell'evento:
"Per sviluppare il lavoro, partimmo da un'idea molto semplice: non ci fossero artisti, non ci sarebbero musei. Da qui decidemmo di fare un gesto poetico: gli artisti sarebbero diventati letteralmente la porta del museo... tutti quelli che entravano avrebbero dovuto mettersi di sbieco per passare in mezzo a noi. E ogni visitatore avrebbe dovuto fare una scelta mentre sgusciava tra noi: fronteggiare l'uomo nudo o la donna nuda? Su una parete del museo appendemmo un testo esplicativo: L'imponderabile. Fattori umani imponderabili come la sensibilità estetica. La soverchiante importanza degli imponderabili determina il comportamento umano".
Con queste decisioni, Marina e gli altri performer mettono in campo se stessi, pongono l'artista alla presenza del pubblico. Nella recente antologica a Palazzo Strozzi questa performance, come altre, è stata riproposta facendo trovare all'ingresso degli "allievi" dell'artista serba, addestrati con un serio e faticoso programma (digiuno, silenzio, ore di camminate a ritroso...); erano però distanti tra di loro e c'era la possibilità di entrare anche da un altro passaggio, neutro: passa il tempo, il pensiero si evolve, ma oggi non sono più considerate praticabili le forti provocazioni degli anni settanta.
Renato Barilli termina il suo excursus suggerendo di "catalogare" le odierne discipline artistiche in modo ancor più semplice rispetto al passato, ricorrendo alla sapienza antica: Aristotele distingueva le arti letterarie tra quelle sintetiche (la poesia) e quelle complesse, di lunga durata, con un intreccio di trama (l'epica, la tragedia). Distinzione valida ancora oggi per separare, ad esempio, i film dalla videoarte.
Io termino con una avvertenza: le costruzioni teoriche dei grandi studiosi possono sembrare fine a se stesse, giochi logici distanti dalla realtà e, in questo caso, dalla pratica artistica. Invece discorsi come quello sviluppato in questa sede mi aiutarono, ai tempi dell'Accademia di Belle Arti, a riflettere su quello che vedevo intorno a me, a comprendere come io vedevo il mondo e a capire come poter procedere per mettere in atto le mie espressioni personali.
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